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L’essenziale per Emily Dickinson: un cestino

Nel 1853, all’età di 23 anni, la poetessa americana Emily Dickinson decide di allontanarsi dalla vita sociale e di ritirarsi in solitudine. Emily Dickinson

Nata in una benestante famiglia di Amherts, nel Massachusetts, Emily crebbe seguendo i viaggi e i trasferimenti che la famiglia compì per via del lavoro paterno (una prestigiosa avvocatura), studiando con discontinuità ma comunque intensamente, affrontando una crisi religiosa e pubblicando le proprie poesie. Non le mancarono né amici né passioni d’amore, ma nessun sentimento, per quanto intenso, riuscì a riportarla alla quotidiana frequentazione del genere umano dopo il volontario allontanamento dal mondo. Gli ultimi venti anni della sua vita furono segnati da una malattia agli occhi, che la tenne temporaneamente distante dalla scrittura e dalla lettura, e da lutti familiari. Morì nel 1886, a 56 anni.

Quale fu la ragione (o le ragioni) per cui Emily scelse di ritirarsi dalla consuetudine della vita sociale, ebbene questo non fu mai reso noto. Eppure le sue poesie svelano inequivocabilmente gli stati d’animo, le inquietudini, i bisogni che la spinsero, ancora molto giovane, ad abbracciare la solitudine, senza tuttavia svelare la ragione primigenia di tale scelta, senza sondare l’insondabile, di chiarire fino in fondo la causa di decisioni tanto radicali quanto, di fatto, irreversibili. Sebbene infatti la Dickinson si fosse poi riaffacciata alla vita sociale, è comunque nella esperienza della solitudine che ella trovò la propria libertà espressiva e il proprio stato di quiete, più o meno duraturo.  

Un suo componimento del 1862 è una lucida descrizione dello stato d’animo che, già da bambina, la spingeva a ritirarsi dal mondo, accompagnata solo dagli oggetti per lei più essenziali. Fra questi, un cestino:

«A casa ero la più piccola

E scelsi la stanza più piccola.

La mia lampada fioca – di notte –

Un libro ed un geranio.

Così,  potevo a mio agio raccogliere

La menta – che cadeva di continuo.

E il mio cestino – se ricordo bene –

Questo era tutto.

Non parlavo mai – se non sollecitata.

In quei casi – brevemente – a voce bassa.

Non mi riusciva di vivere nella

Confusione. Mi vergognavo del chiasso.

Se non fosse stato lontano –

E che laggiù era già andato qualche amico –

Avevo spesso pensato – come sarei potuta

Morire – senza che nessuno lo notasse.»

 

Nel costruire il proprio luogo di ritiro (la propria cella monastica, verrebbe da dire), la poetessa decide di portare con sé luce, parole, colore (quello intenso di un fiore quale il geranio), profumo (quello fresco della menta): una lampada dalla luce leggera, un libro, un geranio e, pochi versi dopo, un cestino, in cui forse (diciamo noi) raccogliere la menta, erba fresca che germoglia abbondante.

Nella radicalità dell’isolamento volontario, fra gli oggetti irrinunciabili, c’è anche il cesto: un contenitore di oggetti, di cibo, e anche di idee. Un oggetto dalla struttura solida, in grado di contenere, custodire, sopportare pesi importanti, tenere al sicuro oggetti concreti ed idee.

 

Chiara Morabito

 

Edizione di riferimento: Emily Dickinson (1987), Poesie, a cura di Gabriella Sobrino, con venti disegni di Ugo Attardi, testo inglese a fronte, Newton Compton, Roma 2005

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