Il poeta genovese Eugenio Montale (1896-1981) pubblica la sua più nota raccolta di poesie, Ossi di seppia, nel 1925; altre vedranno la luce nei decenni successivi, e nel 1975 riceve il premio Nobel per la Letteratura.
La sua opera poetica (Montale è autore anche di numerose traduzioni e prose, e consistenti sono i suoi scambi epistolari) è fra le più alte del Novecento, italiano e non solo: parole luminose ed illuminanti, in grado di esprimere con rara efficacia il senso di smarrimento di fronte al vuoto di senso della nostra esistenza, e al tempo stesso l’intensità del desiderio di vivere proprio quella stessa vita di cui non si riesce a comprendere il significato, pur cogliendone il valore. Nonostante questa condizione di frustrazione, proposta dal poeta come universale e perenne, Montale ama appassionatamente: ama la donna che accompagna la sua esistenza, rispetta e coltiva profondamente il sentimento dell’amicizia, coglie con tenerezza le emozioni genuine dei bambini, osserva con cura ed ammira ogni dettaglio della natura, dei mondi animale e vegetale.
Il suo stile è essenziale e ricercato al tempo stesso, il verseggiare è frutto di un attento lavoro di ricerca lessicale e di una accurata rielaborazione stilistica, a tratti quasi musicale, certamente dalle studiatissime qualità sonore.
Non osiamo in questa sede avventurarci nell’arduo, sebbene affascinante, compito di analisi dell’opera di Eugenio Montale, sulla quale è stato scritto moltissimo e molto bene.
Piuttosto cerchiamo nei versi della sua raccolta Ossi di seppia la presenza di cesti e rami da intreccio, lasciando poi ai lettori il piacere, per chi vorrà, di leggere e rileggere per intero queste raccolte di splendide poesie. Scandaglieremo in seguito le altre raccolte poetiche.
Per ovvie ragioni di sintesi qui citiamo dunque solo i versi di nostro interesse estrapolati da Ossi di seppia, dando le indicazioni necessarie per reperire il testo nella sua integrità. Consapevoli, però, che solo la lettura del testo completo può restituirci davvero la bellezza e la profondità dei suoi versi.
Da Il fuoco che scoppietta (dalla sezione Sarcofaghi): il lettore è qui un viandante che, di passaggio, è invitato dal poeta ad accudire l’inconsapevole uomo che dorme all’interno di una stanza nuda, riscaldata solo da un camino alimentato da un verdastro fuoco; in un angolo, al proprio risveglio il dormiente troverà un fuoco che ancora arde e una cesta dotata dell’essenziale provvista rappresentata dalla pigna matura, con pinoli, e al tempo stesso cibo e legna da ardere nel camino. Qui Montale sembra invitare a compiere con discrezione un bel gesto di cura.
«Il fuoco che scoppietta
Nel caminetto verdeggia
[…].
Un vecchio stanco
Dorme […].
In questa luce abissale […], non ti svegliare,
addormentato! E tu camminante
procedi piano; ma prima
un ramo aggiungi alla fiamma
del focolare e una pigna
matura alla cesta gettata
nel canto […]».
Da Arsenio (dalla sezione Meriggi e ombre): è qui la descrizione di alcuni ambienti, elementi e fenomeni della Natura, da cui il poeta è travolto senza tuttavia rimanerne schiacciato, rimanendo invece sempre in grado di osservarli, ammirarli ed interrogarli.
«[…]
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati […].»
Da Incontro (dalla sezione L’agave su lo scoglio): l’essere umano, la cui debolezza esistenziale è simile alla mollezza di un’alga (i “sargassi”) fluttuante, cammina incerto attraverso la vita, superando una fitta rete di solidi e resistentissimi bambù definiti “sussurranti”. Il bambù, così come anche canneti e giunchi (presenti spesso nel poetare montaliano) sono forme di vegetazione tenaci ed ardue da lavorare, ma anche un elemento vivo ed energico.
«[…]
in un’aura che avvolge i nostri passi
Fitta e uguaglia i sargassi
Umani fluttuanti alle cortine
dei bambù mormoranti . […]»
Altrettanto dicasi per la poesia Il canneto rispunta i suoi cimelli (dalla sezione Ossi di seppia):
«Il canneto rispunta i suoi cimelli
Nella serenità che non si ragna:
l’orto assetato sporge irti ramelli
oltre i chiusi ripari, all’afa stagna […]»
Chiara Morabito
Edizione di riferimento: Eugenio Montale (1948), Ossi di seppia, Mondadori, Milano 1991.